Camera Penale di Rimini
A proposito della separazione delle carriere dei magistrati.
La riforma della separazione delle carriere dei magistrati, oggi al centro del dibattito pubblico, è
sostenuta con convinzione dall’Unione delle Camere Penali Italiane, che nel 2017 ha raccolto le firme
di oltre 72.000 cittadini per presentare in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare, il
cui contenuto è stato sostanzialmente recepito nel disegno di legge costituzionale all’esame del
Parlamento.
Si tratta di una riforma di grande rilevanza, sulla quale riteniamo utile esprimere la nostra opinione a
beneficio del dialogo e di un consapevole approccio da parte dell’opinione pubblica.
Anzitutto, è opportuno prendere le mosse da un’affermazione condivisa: Giudice e Pubblico
Ministero, pur essendo entrambi magistrati, esercitano due funzioni radicalmente diverse.
Come è stato osservato di recente da Tullio Padovani, illustre penalista e accademico dei Lincei, il
problema non consiste allora nel decidere se è necessario separare le carriere, quanto piuttosto
nell’interrogarsi come mai esse siano unite.
E’ vero che la separazione delle funzioni tra Giudice e PM esiste già; funzioni e carriere non sono,
tuttavia, la stessa cosa: solo l’appartenenza del Giudice ad un’organizzazione diversa da quella del
PM è il naturale sviluppo del modello processuale accusatorio delineato nell’art. 111 della
Costituzione, secondo cui il processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità,
davanti a un Giudice terzo e imparziale, a tutto vantaggio dei diritti di ogni cittadino.
Il sistema a carriere separate vuole pertanto assicurare il totale distacco (nel concorso,
nell’autogoverno, nel disciplinare) tra magistratura inquirente e giudicante, per dare ulteriore risalto
alla terzietà e, quindi, all’imparzialità del Giudice così come previsto dalla Costituzione.
A sostegno della conservazione dell’esistente si adduce che la separazione delle carriere
comporterebbe la perdita della “cultura della giurisdizione” da parte PM, con il rischio che lo stesso
diventi una sorta di “superpoliziotto”. Tale argomento, tuttavia, non regge. Anzitutto, perché il PM
resterebbe comunque uno dei fondamentali attori del processo e, in secondo luogo, perché la cultura
della giurisdizione – intesa come rispetto della legge, delle garanzie processuali e dei principi della
Costituzione – coinvolge tutte le parti processuali, anche l’avvocato difensore (il quale, occorre
precisare, difende il diritto prima di difendere una causa). Inoltre, il PM ha già estesi poteri, che con
la riforma potranno semmai essere oggetto di un controllo più penetrante da parte del Giudice
(anzitutto, Gip e Gup), reso più forte dalla sua maggiore indipendenza dalla pubblica accusa.
Si obietta, altresì, che con la riforma il PM finirà, in un modo o nell’altro, sotto il controllo
dell’esecutivo. Si tratta tuttavia di un timore infondato, poiché il prospettato nuovo articolo 104,
comma 1, della Costituzione non viene modificato laddove già stabilisce che la magistratura
costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni potere.
I problemi della giustizia sono tanti e devono tutti essere affrontati (sovraffollamento nelle carceri,
inefficienze del sistema informatico, carenze di organico, compulsiva introduzione di nuovi reati e
continue riforme dei riti processuali). Tuttavia, questa riforma mira a rendere il processo penale più
giusto, nell’interesse di ogni consociato e nel rispetto dei principi tracciati dalla Costituzione.
Rimini, 27 febbraio 2025
Il direttivo